Chandra Livia Candiani: sessantotto anni e una voce di bambina, anche se “la mia voce è un atto d’accusa”, dice lei. Un corpo esile, eppure una presenza così potente, intorno a lei un’aura vasta e un po’ magica: Vivian Lamarque la chiama “folletto”, oppure “Piccolo Principe”.
Della vita di questa poetessa schiva non si sa troppo, ma quel che si ascolta e si legge basta ad accertarne la sua silenziosa grandezza, il suo essere così delicata e insieme rivoluzionaria.
Chandra Livia nasce a Milano dove trascorre un’infanzia travagliata, segnata profondamente da una famiglia difficile, in cui c’erano folli, nel senso clinico del termine, di cui prendersi cura: «E poi volevo sparire / scogliere il patto / di caricarvi tutti / sulla schiena facchina / di salvarvi» (da Fatti Vivo). Nessuna regola né mappa per orientarsi, piuttosto smarrimento e paura. È in questo momento che conosce il male: un’infanzia così si paga per il resto della vita, ma forse è anche quella follia a creare le condizioni per le visite della poesia.
Si iscrive a Filosofia ma, giovanissima e lavoratrice, abbandona gli studi. Verso i trent’anni vola fino in India, dove incontra il Buddhismo e quindi la meditazione. Qui viene rimessa al mondo con il nome di Chandra: in sanscrito Luna. Sarà questa esperienza a plasmare la sua vita e la sua poesia: una pratica quotidiana di vuoto, cura, silenzio e gratitudine. Uno stare al mondo consapevole, nella continua coltivazione del corpo e della mente/cuore (in sanscrito sono un solo termine: citta).
Attraverso le sue parole, Chandra Livia ci fa riflettere sul profondo legame che esiste fra meditazione e poesia. La parola “poesia” deriva dal verbo greco “poiein” che significa “fare”, ma non è un fare pratico: è il fare artistico e religioso. Significa portare alla luce, creare. La parola che il Buddha usa per “meditazione” è invece “bhavana”, che è il causativo del verbo essere: di nuovo portare all’essere, coltivare. È come se poesia e meditazione condividessero uno stesso fare che abita il silenzio ed evoca il sacro.
Infatti, nei suoi versi c’è una totale accoglienza dell’universo: verso le persone (e i bambini soprattutto), le piante, gli animali, gli oggetti – perché, dice, «il divino è la struttura cellulare di qualunque cosa esista». E ancora, nella stessa intervista: «spesso chiedo agli animali che incontro, o agli alberi: “mi porteresti la poesia?” Ultimamente però l’ho sostituito con: “se vuoi ti presto la mia voce.” Mi sembra più generoso».
Così diventa naturale inchinarsi alla terra quanto ringraziare le pentole, perché alla base c’è un’assoluta comunione del creato e un paio di lenti col filtro poesia a scoprire il mondo: «Qualche volta io / non ci sono e sono / tutta l’aria, sono / pulviscolo atmosferico / e vibro d’altri / di loro gesti e fiati.» (da La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore).
Chandra Livia scrive versi all’apparenza gentili, ma colmi di una potenza sovversiva: in una contemporaneità che vieta di rallentare e sprona continuamente all’ingordigia, esiste in queste poesie la possibilità della lentezza e del vuoto. Esiste la possibilità del sostare, che è poi uno dei grandi insegnamenti del Buddhismo: imparare a stare nel mondo, dentro il bene, ma soprattutto dentro il male, perché la sofferenza «toglie dall’anestesia e quindi apre alla bellezza» (dalla stessa intervista di sopra).
In Bevendo il tè con i morti Chandra Livia abita questo dolore. Sta nella soglia tra i vivi e i morti, percorrendo un solenne corteo funebre, dove la morte appare leggera, tragica e incantata. In questa raccolta i morti siedono sui fili della luce, cambiano l’acqua ai fiori, bussano ai vetri e hanno per alfabeto la neve: nel mondo di Chandra Livia viviamo tutti nello stesso condominio!
Dunque, un abbraccio al cosmo, un percepire «la sua pelle-mondo» nel silenzio, per comprenderne le profondità e la vera bellezza. Chandra Livia ci insegna che non tutte le rivoluzioni accadono gridando, che ce ne sono invece di intime, sono quelle che germogliano mute e in quella mutezza spaccano le montagne.
Allora, alla luce di tutto ciò, risulta molto strano imbattersi nel suo nome – ma, attenzione: mancante di una parte – in un’antologia così violenta e politicizzata quale è Poesia femminista italiana (curata da Laura Di Nola nel 1978). Eppure, eccole lì: le Poesie Mestruali di Livia Candiani.
In queste poesie si legge la consapevolezza di un io fisico, raggiunta tramite l’esperienza personale della propria anatomia, rifuggendo la visione comune che voleva il corpo femminile eroticamente disinibito o, all’opposto, totalmente censurato. Non c’era spazio per il giusto mezzo, né soprattutto per i sentimenti reali che le donne provavano in relazione al proprio corpo. Livia, invece, dà voce a una lingua istintiva, viscerale, aggressiva e prepotente.
Ecco che l’utero, il sangue mestruale, l’aborto, la perdita della verginità diventano argomenti di cui si può e si deve scrivere. Non c’è più posto per le false narrazioni, la poesia femminista della giovanissima Livia si fa spazio in un mondo politico, sociale, culturale che addestra(va) donne silenziose e ubbidienti.
Forse non è un caso che questi versi non siano reperibili ormai quasi da nessuna parte: fanno parte di una poesia legata a un periodo di vita differente, di cui tra l’altro l’autrice non parla. Tuttavia, per la loro rarità e per la loro insita dissidenza, questi versi meritano menzione, e anche se restano custoditi soltanto in qualche vecchio volume, continuano comunque a spargere rivolte.
Chandra Livia ha forse un’indole rivoluzionaria, che si è espressa e si esprime in modi molto diversi (il femminismo, la traduzione dei testi buddhisti, la meditazione, i seminari di poesia per i bambini della periferia milanese…). Sicuro è che la sua poesia mette a tacere l’assillo, crea un vuoto fertile, coltiva uno spazio sacro, insegna a non dare nulla per scontato: essere presenti nel mondo per ringraziarlo di ogni singola «briciolitudine». Leggere oggi Chandra Livia Candiani è necessario: per sentire che «tutte le cose / hanno un battito».
Da Fatti vivo, 2017
Tutte le cose
hanno un battito
il battito pentola
fiammifero
il battito pensiero
sorriso.
Vedere bellezza,
smacchiare,
la ragione d’essere,
essere.
Dimmi le regole
dimmi dove.
Ho paura di tutta questa musica
di come rintocca e fa strage
di pensieri,
fragile aria
ne fa arsura.
Sto con te
stonata vita mia
invisibilmente,
va bene?
•
Per Kema, Marwa, Aldin,
Hussan, Aylan, Mansour,
Abdulhamid, Salim, Nour,
Dima, Ayman, Tarek, Raed,
Shirihan, Nourhan, Randa,
Salsabil, Sheikh, Cham, Lamar,
Yaman, Ragad, Homam,
Mohamad, Lara, Joud, Mayar,
Bisan, Oday, Osama e tutti gli altri.
Quand’ero piccola
è adesso e non più adesso
questa cerimonia dell’acqua
e sputi mi affonda gli occhi
sale incendia il fiato.
Luna vieni prendi l’acqua.
Le parole sono fuggite
la mamma non chiama,
bianco ingordo mare.
Mani nere allacciate buio
Abbottonatelo alla terra,
le onde mi sposano
a nessuno, grande nessuno.
Ho paura non avere paura.
Voce,
ho paura adesso.
Il mare mi beve
cancelli tutto
mondo nuovo,
matassa di mani
tocco senza incontrare
sono io il mare
e quasi non fa male
il mio rotto cuore,
mondo che non mi aspetta
ondina bambina
fine-fine vita nuova
schiuma.
Sapore di capra
bevo tutto il mare
tutta mi beve il mare.
Il segreto è salvo?
•
Da La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, 2014
Mappa per l’ascolto
Dunque, per ascoltare
avvicina all’orecchio
la conchiglia della mano
che ti trasmetta le linee sonore
del passato, le morbide voci
e quelle ghiacciate,
e la colonna audace del futuro,
fino alla sabbia lenta
del presente, allora prediligi
il silenzio che segue la nota
e la rende sconosciuta
e lesta nello sfuggire
ogni via domestica del senso.
Accosta all’orecchio il vuoto
fecondo della mano,
vuoto con vuoto.
Ripiega i pensieri
fino a riceverle in pieno
petto risonante
le parole in boccio.
Per ascoltare bisogna aver fame
e anche sete,
sete che sia tutt’uno col deserto,
fame che è pezzetto di pane in tasca
e briciole per chiamare i voli,
perché è in volo che arriva il senso
e non rifacendo il cammino a ritroso,
visto che il sentiero,
anche quando è il medesimo, non è mai lo stesso
dell’andata.
Dunque, abbraccia le parole
come fanno le rondini col cielo,
tuffandosi, aperte all’infinito,
abisso del senso.
•
Sei tu parola
la mia nuda guerra,
notturna disciplina,
è tuo
lo scatto che sa la sobrietà
della strada più lunga,
sei tu la risposta
alla pressione del cielo,
al batticuore del silenzio,
il rifugio esposto sei tu,
nell’esilio dell’anima
che non verdeggia,
non fa foresta,
tu sonaglio
in paesaggio di sola neve.
Che tu veda la mia fame
già mi sfama,
ti consegno la mia balbuzie
perché tu la dica
polvere d’ossa e semina.
Veglia sulla nostra siccità
e la nostra mancanza di sete,
assetaci parola
con la tua assenza rovente
con il tuo potere smarrito
in fiato senza soffio
in metro
che non misura l’incedere del volto
nella prospettiva fluttuante dell’ignoto.
Non ignorarci, non fermare
la mano che offre servizio
e splendore con la lealtà del pugnale,
la piuma implacabile della pesatura
del cuore. Dove si accuccia in noi
il male? La parola scardinata dal petto?
Male stentato, dolore inflitto
Svogliatamente, parola schiava,
ridotta a retrobottega di gesti.
Fare ritorno al vuoto leggero,
ai segni sulla pelle del mondo,
chiamarti a voce,
farti invito, filo fermo
del discorso, vela,
ma cosa è vento?
Tu secchio e deriva,
tu impastata di silenzio
come acqua e frana,
parola che modella l’anima,
la istruisce
a irriducibile tenerezza,
tu brace ostinatamente tesa
al fuoco, fa’ di me memoria
all’altezza del gioco del presente,
a scuola dalle nuvole
a farmi diligentemente niente,
momento che sfuggendo
non trascina che resta svanendo,
traccia, forma che scolora.
Di quale amore ho sete?
Ti amo
anche quando non so di amarti.
Parola di silenzio.
Veglia sulla mia mutezza
come il sole sull’uva
perché diventi vino
e voce.
•
Da Bevendo il tè con i morti, 2007
Il morto
dalle spalle di cristallo
trepido coltiva
la leggerezza di un bambù
per avere in vita
troppi pesi portato.
•
Il morto che ha paura di vivere
si alza di notte
rassetta la terra
cambia l’acqua ai fiori
della tomba
si siede a guardare le stelle
da lontano, sfugge
le rassicuranti chiacchiere
dei vissuti, ora come allora,
spiega l’anima stanca
come un tempo i vestiti
e a un tratto la terra
gli si rivela
piccola e minuziosa
nei solitari compiti
di fiorire e tramontare.
Se vuoi conoscere meglio Chandra Livia Candiani, ti consiglio di cercarla tra gli scaffali della Libreria delle Donne di Bologna (Via San Felice 16/A), della Biblioteca Italiana delle Donne (Via del Piombo 5), o di qualsiasi altro spazio di genere!
Eleonora Negrisoli per Muri di Versi
FONTI
Bevendo il tè con i morti, Milano, Viennepierre, 2007. Novara, Interlinea, 2015
La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Torino, Einaudi, 2014
Fatti vivo (2006-2016), Torino, Einaudi, 2017
Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Torino, Einaudi, 2018
(Per interviste ed interventi consultare Youtube)