Alejandra Pizarnik – sonnambula e trasparente

alejandra alejandra

io sono sotto

alejandra

Sotto le chiare lettere del nome si cela una poeta argentina dalla natura densa e sfuggente, come la nebbia che la attraversa: è Alejandra Pizarnik.

Alejandra nasce ad Avellaneda, nella provincia di Buenos Aires, il 29 aprile 1936, secondogenita di una famiglia di ebrei emigrati dalla Russia. Si iscrive alla Facoltà di Lettere della capitale, in effetti non concluderà mai gli studi, ma in quegli anni universitari coltiva rapporti con i poeti argentini più influenti dell’epoca. A questo periodo risalgono anche le prime raccolte di poesie, che già pulsano di quella vena che, come filo viola, lega tutte le opere di Alejandra.

Centro nevralgico è certamente la notte, soggetto – «della notte so poco / ma di me la notte sembra sapere» e insieme oggetto – «Tutta la notte faccio la notte. Tutta la notte scrivo. Parola per parola io scrivo la notte» dell’azione poetica, come se Alejandra e la Notte vivessero in simbiosi, uniche esemplari della stessa specie. Nelle sue notti c’è molto dolore, non lo si può negare, ma in questo spazio-tempo, buio e onirico, si officiano dei riti, e attraverso magie sinistre, a volte perverse, si esorcizza il male: «scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale, lo squarcio».

L’oscurità avvolge costantemente Alejandra e la insegue fino a Parigi, dove la giovane poeta si stabilisce nel 1960 e poi nei successivi quattro anni. Qui lavora come traduttrice e saggista per alcune riviste letterarie, mentre rimbalza tra un appartamento e l’altro e incrocia le vite di personaggi come Octavio Paz, Julio Cortázar, Cristina Campo. Tra Alejandra e Cristina in particolare nasce un’amicizia, che le due – entrambe ossessionate dalle ferite del proprio io –porteranno avanti per diversi anni in via epistolare.

È però agli anni del ritorno a Buenos Aires che risalgono le opere più importanti della poeta: Le opere e le notti (1965), Estrazione della pietra di follia (1968), L’inferno musicale (1971).

Questa volta il buio alejandrino assume infinite sfumature, che confluiscono in personaggi macabri e circensi – tutti frutto del suo «surrealismo innato», come lei stessa definisce. L’elenco di queste immagini impiegherebbe diverse colonne, ma è impossibile non citarne almeno qualcuna; dunque, sfilano per il lettore: una «regina pazza che giace sotto la luna sopra l’erba triste del vecchio giardino», un «carromatto da circo pieno di corsari morti nelle loro bare», un «piccolo teschio di cane sospeso al soffitto dipinto di azzurro», una «bambina che asfissia nel sonno la sua colomba preferita»,uno «gnomo sdentato» …e si potrebbe andare avanti all’infinito!

Ma nelle ultime poesie emerge anche una certa impossibilità del comunicare: la maschera del linguaggio si è sciolta e «il linguaggio (si è) spappolato», lasciando Alejandra nuda e confusa davanti alle sue ferite, ad interrogarsi – «Che cosa significa tradursi in parole?». È come se la stessa lingua, che aveva salvato Alejandra per tanto tempo, non riuscisse più a dire davvero i sentimenti: «come se tutto ti annunciasse la poesia / (quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile / – sono solo venuta a vedere il giardino -)». Quell’ultimo verso non è della poeta argentina, è invece una frase pronunciata dall’ ipnotica protagonista di Alice nel paese delle meraviglie – scrive Alejandra: «Per Alice e per me, il giardino sarebbe il luogo dell’incontro […] malmenata dal vento, avanzo nel bosco, mi allontano alla ricerca del giardino». Dunque, Alejandra sceglie di non recarsi al luogo dell’appuntamento e si allontana nel suo bosco di mostri e di lillà, perché l’incontro con se stessa e con il mondo non è più possibile.

È il 25 settembre 1972, Alejandra ha passato gli ultimi cinque mesi in un ospedale psichiatrico, ma agli altri ha detto che ha fatto un incidente automobilistico, questo è il motivo della sua assenza e del suo malessere. In questo periodo di depressione, diverse volte ha tentato di togliersi la vita, e quel 25 settembre, in effetti, ci riesce con un’overdose di barbiturici: «non voglio andare nulla più che fino in fondo» – si legge nel testo rinvenuto sulla lavagna del suo studio.

Troppe volte si è letta la vita e la poesia di Alejandra soltanto alla luce del tragico evento, così come spesso accade per altri poeti suicidi, ma di questa donna non resta soltanto la morte, non resta soltanto quel testo sulla lavagna. Dunque, perché leggerla? Per abitare i propri demoni e comprenderli, per dare la mano alle tenebre senza che ci levino il braccio, per scoprire che certi incubi non sono così terribili come sembrano: Alejandra Pizarnik ci accompagna nella notte, «sonnambula e trasparente».

Da Le avventure perdute (1958)

La notte

Della notte so poco

ma di me la notte sembra sapere,

e più ancora, mi assiste come se mi amasse,

mi ammanta di stelle la coscienza.

Forse la notte è la vita e il sole la morte.

Forse la notte è nulla

e nulla le nostre congetture

e nulla gli esseri che la vivono.

Forse le parole sono l’unica cosa che esiste

nel vuoto enorme dei secoli

che ci graffiano l’anima coi ricordi.

Ma la notte conosce la miseria

che succhia il sangue e le idee.

Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi

che sa pieni di interessi, di incontri mancati.

Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.

Delira la sua lacrima immensa

e grida che qualcosa è partito sempre.

Un giorno torneremo a essere.

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Da Albero di Diana (1962)

17

Giorni in cui una parola lontana si impossessa di me. Vado per quei giorni sonnambula e trasparente. L’automa grazioso si canta, si incanta, si racconta casi e cose: nido di fili rigidi dove mi danzo e mi piango ai miei numerosi funerali. (Lei è il suo specchio incendiato, la sua attesa in roghi freddi, il suo elemento mistico, la sua fornicazione di nomi che crescono soli nella notte pallida.)

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Da Le opere e le notti (1965)

Presenza

la tua voce

in questo non potersene uscire le cose

dal mio sguardo

mi spossessano

fanno di me un vascello in un fiume di pietre

se non è la tua voce

pioggia sola nel mio silenzio di febbri

tu mi liberi gli occhi

e per favore

parlami

sempre

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Da Estrazione della pietra di follia (1968)

Vertigine o contemplazione di qualcosa che finisce

Questo lillà si spoglia.

Cade da se stesso

e occulta la sua vecchia ombra.

Morirò pressappoco così.

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Da L’inferno musicale (1971)

La parola del desiderio

Questa spettrale trama del buio, questa melodia nelle ossa, questo soffio di silenzi diversi, questo cadere per cadere, questa galleria buia, buia, questo affondare senza affondarsi.

Che cosa sto dicendo? È buio e voglio entrare. Non so che altro dire. (Io non voglio dire, io voglio entrare.) Il dolore nelle ossa, il linguaggio spappolato, ricostruire a poco a poco il diagramma dell’irrealtà.

Possessi non ne ho (questo è sicuro; alla fine è sicuro). Poi una melodia. È una melodia dolente, una luce lilla, un’imminenza senza destinatario. Vedo la melodia. Presenza di una luce arancione. Senza il tuo sguardo non saprò vivere, questo è certo. Ti suscito, ti resuscito. E mi ha detto di uscire al vento e fuori di casa a domandare se c’ero.

Passo nuda con una candela in mano, castello freddo, giardino delle delizie. La solitudine non è essere in piedi sul molo, all’alba, a guardare l’acqua avidamente. La solitudine è non poterla dire per non poterla circondare per non poterle dare un volto per non poterla rendere sinonimo di un paesaggio. La solitudine sarebbe questa rotta melodia delle mie frasi.

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Da Poesie non raccolte in volume (1970-72)

no, la verità non è la musica

io, triste attesa di una parola

qual è il nome che cerco

e che cosa cerco?

non il nome della deità

non il nome dei nomi

ma i nomi precisi e preziosi

dei miei desideri nascosti

qualcosa in me mi punisce

da tutte le mie vite:

–  Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi

e hai preferito l’attesa,

come se tutto ti annunciasse la poesia

(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile

–  Sono solo venuta a vedere il giardino –)

Se vuoi conoscere meglio Alejandra Pizarnik, ti consiglio di cercarla tra gli scaffali della Libreria delle Donne di Bologna (Via San Felice 16/A), della Biblioteca Italiana delle Donne (Via del Piombo 5), o di qualsiasi altro spazio di genere!

Eleonora Negrisoli per Muri di Versi

FONTI

A. Pizarnik, La figlia dell’insonnia, Crocetti Editore (2020)

Enciclopedia delle Donne

Doppiozero

Pangea

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